Quante volte abbiamo sentito parlare di cattiva informazione o abbiamo notato l’uso di termini come disinformazione e mala-informazione? Il fenomeno è esploso, in particolare, durante la pandemia da Covid-19 che spesso è stata definita anche “infodemia“. Si tratta della circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, non sempre validate e talvolta contraddittorie, che genera confusione e, appunto, disinformazione. Nel 2020 la World Health Organization (WHO) ha perciò creato Early AI-supported Response with Social listening tool (EARS), una piattaforma che consente ai decisori sanitari di visualizzare un’analisi in tempo reale dei temi più dibattuti nei forum pubblici online in più paesi e lingue. Oltre a essere costosi, indagini e sondaggi offrono feedback solo sulle tendenze e sugli atteggiamenti del passato. Il progetto pilota EARS è disponibile gratuitamente a tutti proprio per aiutare le autorità sanitarie a combattere l’infodemia COVID-19.
Disinformazione, misinformazione o malainformazione?
Il rapporto Information disorder, toward an interdisciplinary framework for research and policymaking (2017) di Hossein Derakhshan e Claire Wardle risulta molto utile per tracciare una distinzione netta tra dis-informazione, mis-informazione e mala-informazione. Parole che spesso rimbombano nel parlare comune e che talvolta vengono usate come se fossero sinonimi, ma non è così. Secondo Darakhshan e Wardle la dis-informazione consiste nella creazione volontaria di contenuti falsi per arrecare un danno a persone od organizzazioni, oppure per arricchirsi e avere un’influenza politica . La mis-informazione si avvicina molto dal punto di vista contenutistico, in quanto consiste nella diffusione di contenuti falsi, ma coloro che li condividono ne sono inconsapevoli e spesso sono spinti da fattori psicologici. La mala-informazione, infine, è la condivisione di informazioni autentiche con l’intento di causare danni.
Le basi dell’alfabetizzazione scientifica
La continua rielaborazione di un’informazione allontana sempre di più il lettore dalla fonte originale. Ad esempio, quando i ricercatori terminano uno studio lo sottopongono al giudizio critico “dei pari” o peer review (di altri ricercatori e ricercatrici) e se l’esito è positivo viene pubblicato su una rivista scientifica. Un altro step è il passaggio della ricerca dalla rivista di settore ai media (giornali o siti). Qui subentra, da un lato il peso delle competenze e dell’etica di chi scrive e, dall’altro, quello dei nuovi modelli di linguaggio basati sull’Intelligenza Artificiale che possono generare testi quasi indistinguibili dai contenuti scritti da un essere umano. Poi ci sono Facebook e Google che non sempre verificano ciò che viene condiviso sulle loro piattaforme e i cui motori di ricerca lavorano avvalendosi del machine learning, cioè, memorizzando le scelte e i gusti dell’utente per poi proporgli argomenti in linea con tali preferenze.
Un altro aspetto importante è verificare l’autorevolezza della fonte e la data di pubblicazione di ciò che è scritto, badando anche al tono con cui ci viene data in pasto, alla presenza o meno di dati quando si tratta di notizie scientifiche e all’intento mascherato di chi scrive di ottenere uno schieramento di posizione (polarizzazione).